Non ho l'età
Ero giovane, andavo a scuola, portavo spesso un pesante zaino sulle spalle e mi muovevo in autobus.
Abitavo in periferia, in una di quelle strade tutte ripide e a tornanti. Là in cima si inerpicava solo un piccolo bus, uno di quelli dove, coloro che si muovono sempre agli stessi orari, ormai si conoscono tutti.
Io ero un tipo timido e silenzioso.
Giravo in tuta da ginnastica e scarpe da tennis, quando queste ancora non erano da fighi. Tendevo a non voler dare fastidio a nessuno. Diffidavo dalla coda del bus, dove si accalcavano i bulli del quartiere. Non mi potevo sedere, perché ero troppo giovane per poterlo fare senza destare gli improperi di chi, più grande di me, era certo che non ci fosse più rispetto per gli anziani.
Spesso me ne stavo in disparte, con lo zaino tra le gambe, ma questi piccoli bus di quartiere non lasciano grande margine di manovra. Contemplano 10-15 posti a sedere, compreso l’autista, è impossibile non scontrarsi, è impossibile non vedersi. Soprattutto nelle ore di punta.
Una volta è capitata questa madre, non mia madre, una donna che avrebbe potuto essere mia madre. Io avrò avuto 11 o 12 anni, in piedi, in punto in cui non avrei ostacolato chi doveva scendere prima di me, con lo zaino tra i piedi. La conoscevo vi vista, perché da quelle parti, di vista, ci si conosce tutti. Tra l’altro io e suo figlio frequentavamo la stessa scuola di quartiere. Lui, di un anno più piccolo di me, era nella classe accanto alla mia.
Quel giorno, come ogni altro giorno, saremmo dovute scendere alla stessa fermata ma lei, imperterrita, sentiva il bisogno di andare verso l’uscita e piazzarsi in pole position per il grande momento. Parla con una sua amica, forse è distratta, forse non lo so, mi passa davanti e tocca con i piedi il mio zaino. Non inciampa, non cade, non le succede niente. Forse semplicemente non si aspettava di trovare un ostacolo al suo percorso, ma nel dubbio mi insulta.
Non si rivolge direttamente a me, lo dice alla sua amica “questi qua” che poi sarei stata io “ti lasciano sempre le borse in giro che sembrano trappole mortali”. Ero ancora una persona discretamente educata quindi mi sono rivolta a lei scusandomi ma facendole notare che il mio zaino era tra i miei piedi proprio per dare il minor fastidio possibile.
Lei sente la necessità di replicare qualcosa, ma, nuovamente, non lo dice nuovamente a me. Riesce a far intervenire nella discussione anche l’autista e tutti insieme allegramente si attaccano al fatto che questo fosse effettivamente “in mezzo ai piedi” ma non come lo intendevo io. Segue ulteriore appendice sul fatto che fossi “lì davanti” ostacolando l’uscita se quella non era ancora la mia fermata, e su quanto “questi giovani” siano tutti cafoni e maleducati. Anch’io ho dovuto replicare osservando che, di certo, non potevo rinunciare allo zaino ma che, se lo avessi portato in spalla, avrebbe dato a tutti molto più fastidio. Questa, sempre rivolta all’autista, “e devono sempre avere l’ultima parola!”.
“No, ma, mi scusi… perché lo dice a lui se si rivolge a me?”
Sempre rivolta all’autista: “e vanno avanti pretendendo di avere ragione!”
“Ma secondo lei dove dovrei mettere lo zaino?”
La discussione va avanti così finchè non siamo giunti tutti alle nostre fermate e io, da allora, abitando entrambe ancora nello stesso quartiere, ogni volta che la incontro penso “uh! la rompicoglioni dello zaino”.
Oggi sono molto meno educata.
E’ un episodio che mi ricordo ancora così bene a distanza di tanti anni anche se, evidentemente, il vero problema non è dove mi dovessi infilare lo zaino. Il vero problema della situazione era l’essere giovani, tra sparenti, vulnerabili per la società. La signora in questione, pur avendo un figlio della mia stessa età, pur non conoscendomi, mi ha infilato in una grande categoria generalizzandomi e schiacciandomi, perché lei era un’adulta. Lei era grande, io ero piccola. Lei era migliore di me e non poteva abbassarsi a rivolgermi la parola. Lei doveva interagire esclusivamente con propri pari, fare gruppo contro di me, senza ascoltarmi, senza sentire quello che avevo da dire, anche se mi potevo con il massimo garbo e senza alzare la voce. Banalmente, avrebbe potuto consigliarmi dove mettere la borsa, se proprio era convinta di avere ragione. Invece no, la sua unica ragione di vita era far squadra con coloro che reputava suoi pari e così farsi forza per umiliarmi, denigrarmi, annientarmi … e vincere! Su una ragazzina.
Tutta questa storia mi è tornata in mente pochi giorni fa, proprio nel bel mezzo di quella che è stata la grande polemica intorno al mondo dei bookinfluencer vs la carta stampata.
Per chi si fosse perso la vicenda credo che posa essere riassunta in questi termini.
Tutto è iniziato con un articolo pubblicato su prestigiosissima carta stampata da un giornalista vero, di quelli che vengono pagati per quello che scrivono, uomo, adulto, professionista d'esperienza.
Oggetto della sua analisi sono state le foto delle book influencer pubblicate su instagram. In sintesi e con la massima superficialità possibile, ha preso quattro nomi a caso di ragazze che, nell'ambito, sono più popolari, li ha citati espressamente, ha commentato e riso di quattro foto prese a caso dai loro profili e, senza porsi minimamente il dubbio su chi sia questa gente, cosa faccia nella vita, cosa ci fosse scritto nel post pubblicato insieme alle foto, ignorando che non sia un fenomeno prettamente femminile, le ha catalogate come vetriniste di quarta categoria e mandato in stampa il pezzo senza chiedersi se fosse il caso o meno.
Il mondo del web sa essere diabolico all'occorrenza. Questo post ha iniziato a rimbalzare da un punto all'altro della rete. Sarebbe potuto andare direttamente a rivestire il secchio della spazzatura del giorno dopo, ma niente più dell'insulto al popolo del web scatena l'ira del medesimo popolo del web, soprattutto questo si va ad insistere su una categoria specifica e, nello specifico, neanche troppo numerosa, come quella del mondo books. Bookstagrammer, bookinfluencer e tutto quello che ci gira intorno.
Il giornalista avrebbe potuto semplicemente non fare nomi. Avrebbe potuto ridere benissimo delle tazze di caffè piazzate sulle copie di Elena Ferrante e ne avremmo riso tutti quanti. Avrebbe potuto citare i tappetini pelosi e i cuscini shabby shick e nessuno si sarebbe offeso perchè sarebbe tranquillamente rientrato nella descrizione del 90% degli scatti che infestano la rete.
Invece ha preferito farli, utilizzando il proprio nome, la propria fama, il proprio potere per attirare l'attenzione in un modo che rasenta da molto molto vicino il concetto di bullismo, su qualuno che evidentemente non ha la stessa visibilità. Stiamo pur sempre parlando di qualcuno che, per quanto visibile, popola la community dei libri. Non un gamer, non un Favij e neanche un Cicciogamer. E se non sapete chi sia Cicciogamer chiedetelo alla Fornero.
Quello che ha seguito nei giorni successivi è qualcosa che rasenta la follia. Il popolo del web si anima e si indigna, qualcuno tenta di rispondergli ma il Giornalista non fa altro che chiamare alle armi i propri colleghi, i propri simili. Continua a sfruttare le proprie piattaforme per lamentarsi di questi che gli stanno scagliando contro le proprie invettive, che pretendono di avere l'ultima parola. Non risponderà direttamente a nessuno, si rivolge direttamente al proprio pubblico, ringrazierà i propri simili per l'appoggio, ignorando le richieste di chiarimenti, spiegazioni o scuse. Tutto questo tran tran è andato avanti un paio di giorni finchè il Giornalista non ha semplicemente deciso di scendere da quell'autobus facendo continuare agli altri la corsa. Una corsa dove ha contribuito a viziare l'aria senza essere disposto a subirne le conseguenze.
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